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Dipenza Cibo

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LA DIPENDENZA DAL CIBO

Photo by Michael Stern

COS’È LA DIPENDENZA DA CIBO?

  • Si tratta di una situazione in cui una persona sviluppa un appetito maggiore di quello che riterrebbe desiderabile per il mantenimento della propria forma fisica. In genere, si intende associata ad un sovrappeso oggettivo oppure a un aumento del peso progressivo con gli anni. Si possono avere momenti di abbuffata o meno. La preoccupazione per il cibo e per la propria incapacità di controllarlo peggiorano notevolmente. si aggiungono sentimenti di colpa, vergogna, disperazione, calo dell’autostima, comportamenti di isolamento, evitamento o calo delle attività.

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  • Non tutti i soggetti in sovrappeso oppure obesi sono preoccupati e scoraggiati per la propria forma fisica e non tutti sono spesso impegnanti in diete. Alcuni non ne hanno mai provate. Così come alcuni soggetti sottopeso non sono anoressici ma sono in equilibrio con il proprio appetito, senza doversi sottoporre a privazioni. Come regola, invece, chi presenta comportamenti di privazione ricorrente o cronica, o di abbuffata, quasi sempre lo fa come segno di mancanza di controllo dell’appetito ed è quindi preoccupato dell’effetto sulla forma fisica.

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  • Quando questo rapporto problematico col cibo e con l’appetito diventa continuo, e dura anni, si instaura un quadro di dipendenza, di solito, con un progressivo aumento di peso, magari ancora intervallato da periodi di controllo forzato o perdita di peso anche ingente. Nel tempo, la preoccupazione è maggiore, il controllo peggiora, il peso “morale” tende a diventare centrale. Se invece la persona, pur ingrassando, si preoccupa di meno e sostanzialmente non è più ossessionata dal peso, non si definisce una dipendenza. Altri termini per indicare la dipendenza dal cibo sono il disturbo da alimentazione incontrollata, che però fa riferimento all’obesità. La bulimia e il binge-eating disorder spesso ne sono fasi, o precursori. L’obesità, intesa come malattia cronica progressiva recidivante, è una situazione che abbastanza spesso si associa alla dipendenza da cibo, cioè è causa di sofferenza psichica per la persona, ed espressione di disfunzione psichica, oltre ad avere conseguenze corporee varie.

Perché si parla di dipendenza da cibo?

  • Quando si usa il termine dipendenza ci si riferisce ad una malattia acquisita, ovvero non si nasce dipendenti, né è un modo per dire che si mangia in maniera sbagliata o per ragioni sbagliate. Significa che si sviluppa un rapporto non più controllato con il cibo, ma che questo rapporto poi diventa autonomo, cioè va avanti da solo per come si è sviluppato, per cui il recupero del controllo è proprio la parte che non riesce bene.

Quali sono i fattori psicologici alla base della dipendenza? Come riconoscere la dipendenza da cibo?

  • La dipendenza da cibo può essere riconosciuta da due versanti. Il primo è quanto sia importante, centrale e ossessionante il pensiero del cibo per la persona. Il secondo è quanto siano inefficaci i comportamenti alimentari tesi a controllare il peso. Semplificando, si potrebbe dire che il numero di diete tentate è il modo più semplice per capirlo. Così come numerose disintossicazioni sono un criterio diagnostico per la tossicodipendenza, le diete fallite lo sono per la dipendenza da cibo. E’ bene capire che non si tratta di tentativi falliti in realtà, ma di segnali di un bisogno di interrompere un meccanismo, che si deve realizzare, nella mente del cibo-dipendente, in maniera rapida, virtualmente il prima possibile, prima di avere di nuovo fame, per così dire.

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  • Il bisogno di far diete, la tendenza a farle spesso (iniziarle), a pensarle ancor più spesso (dalla mattina alla sera), insieme alla ricerca di diete rapide oppure drastiche, sono espressione di una incapacità di gestire l’alimentazione per via naturale.

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  • Il dimagrimento rapido diventa l’unica via considerata efficace semplicemente perché è un rapporto stravolto col cibo che, almeno temporaneamente, la persona riesce ad attuare: tanto più la persona non è in grado di gestire la libertà di mangiare, tanto più cerca regole artificiali, cioè cerca di evitare la libertà, cosa che di fatto è impossibile. Per questo può cercare contesti controllati, ricoveri, periodi di alimentazione limitata in centri residenziali, che hanno lo stesso significato, cioè confermare che la persona non è libera di mangiare come vuole e controllare come vuole l’impulso.

Come avviene la diagnosi di dipendenza da cibo?

  • La diagnosi non si contrappone o è sempre diversa dalle altre categorie esistenti. Essa indica un decorso cronico, recidivante e tendente al progressivo aumento di peso, seppure non sempre fino a livelli elevati. In teoria, anche l’anoressia può rientrare nella stessa categoria, ma essa si distingue per un capovolgimento dell’usuale rapporto con il cibo (iper-controllo di un istinto), e una soddisfazione per la propria forma fisica, nonostante la consapevolezza dell’anomalia e del rischio ad essa associata.

Quali sono gli alimenti che, di solito, predilige chi è dipendente dal cibo?

  • Gli stessi di chi non lo è. Il fatto che un cibo induca dipendenza si basa sulle proprietà di gradimento e di attrazione che un cibo esercita sul cervello. I cibi che la inducono quindi sono anche quelli normali. E’ ipotizzabile, tuttavia, che esistano cibi equivalenti a droghe d’abuso, e che quindi riescono a indurre la perdita di controllo nel meccanismo che regola l’appetito. In altre parole, esiste un cibo “eroina”? Forse. Sicuramente, però, chi poi diventa cibo-dipendente non consuma solo determinati cibi, ma tende a consumarne di ogni tipo, con una prevalenza di cibi ad alto contenuto calorico e di carboidrati o grassi, ma questo è anche quello che accade in generale nell’uomo qualunque, al di fuori di situazioni di povertà o carestia. Tuttavia, può darsi che certi cibi facciano da induttore di una condizione che altrimenti sarebbe più rara. Cibi che sono studiati per essere commercialmente ricercati possono avere in sé una componente che spinge la persona a consumarli, al di là di ogni altra considerazione, inclusa quella gastronomica. Cioè possiamo essere indotti a consumare un alimento anche se alla fine non ci dà la soddisfazione che credevamo. Un appetito malsano che non si sfoga bene su un cibo, ma che anzi rimane frustrato.

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  • Esiste poi la questione della stimolazione ripetibile. Un cibo che è suddivisibile in più unità palatabili, tipo le patatine, è più soggetto a indurre abuso che non un alimento che ha senso solo se in unità grosse, tipo una tagliata. Così, se in teoria mangiare una patatina è “meno” che mangiare una bistecca da tagliare, in realtà alla fine la patatina induce un consumo ripetitivo. Stesso dicasi per cibi a base di latticini, di carboidrati. Raramente, vi sono persone che riescono a deviare il gusto verso il consumo di cibi poco calorici in grandi quantità. Si tratta comunque di fasi della dipendenza, nelle quali il controllo del peso può riuscire meglio, ma in realtà la sensazione di precarietà rimane.

Quali sono le frustrazioni che vive chi è dipendente dal cibo?

  • Questo è il punto centrale. Il disagio non può essere definito né solo come un problema di obesità, perché non sempre c’è obesità, e a volte il sovrappeso è di grado modesto, o neanche costante. Possono esisterne anche forme a peso normale o ridotto, anche se in questo caso è più probabile che sia una anoressia.

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  • In generale, la dipendenza da cibo è destinata nel tempo a convergere verso un peso più o meno superiore a quello “da tabella”, ma la costante è la frustrazione per il controllo del proprio peso verso il valore desiderabile, e tutto quello che nella mente della persona questo comporta, spesso sopravvalutato o addirittura opposto a ciò che realmente accade. In altre parole, la preoccupazione prevalente, o comunque prioritaria della persona è il controllo del peso, per cui se questo fallisce, l’intera esperienza di vita ne risulta limitata o disturbata, fino a fasi di isolamento e demoralizzazione, gesti autolesivi o idee di morte motivata dalla propria incapacità a mantenere una forma fisica considerata dignitosa. Dicevamo che la frustrazione è la discrepanza, ovvero la differenza tra l’importanza data all’obiettivo e l’incapacità di mantenerlo. Non c’è sempre una corrispondenza con l’entità: può essere più infelice un soggetto che cerca invano di essere 10 chili in meno che un soggetto obeso che non ha questa preoccupazione come problema centrale.

Com’è vissuta la dieta da chi è dipendente dal cibo?

  • Nella fase di scarsa consapevolezza, la dieta è vista come la soluzione ideale, giusta ma difficile. La frustrazione di non essere adatti alla dieta è un fraintendimento biologico, per cui la persona dà per scontato che la dieta sia possibile e sostenibile in quanto “giusta”, così come indegno e sbagliato ritiene il proprio peso. Quindi, vede se stesso come inetto, mancante di volontà, poco serio nel rispettare le regole, demotivato o pigro. Così il cibo-dipendente non realizza, dopo la 1000-esima dieta, che la dieta stessa è un sintomo del problema, ma ritiene che la 1001-esima possa essere quella buona. Per proseguire su questa strada illusoria le cambia tutte e, chiaramente, con alcune si troverà meglio o peggio, ma solo per quanto concerne la fase del dimagrimento e del mantenimento a medio-termine. La ripresa di peso è comunque l’esito finale.

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  • Se esiste una dieta destinata al successo, questa dovrebbe essere percepita come “libera”. Difficile che quindi una caratterizzata da una serie di limiti sia percepita come tale. Paradossalmente, l’arricchimento di alcuni cibi dovrebbe produrre, senza che sia precritto come limitazione, lo spontaneo distacco della persona da altri alimenti. Ma al momento non si conoscono soluzioni di questo tipo. Il cibo-dipendente frustrato, pur non riuscendo più a perdere se non i primi 2-3 chili, insiste nel dire che “è a dieta” o che “si deve mettere a dieta”, ma in pratica non lo fa o lo fa per desistere al minimo successo, poiché il meccaniso che produce un aumento dell’appetito ad ogni dimagrimento immaginato o ottenuto è fuori controllo. In pratica, ad ogni passo avanti, il cibo-dipendente si sente autorizzato a fare due passi indietro come “premio”, e a questo stadio chiaramente il meccanismo del sacrificio non funziona più, perchè la privazione è sentita in maniera talmente continua e insinuante che la persona sognerebbe di dimagrire “magicamente”, raccontandosi che ciò dovrebbe avere per minime privazioni, o salti di pasto completamente compensati dal pasto successivo, o spostamento delle calorie da un cibo ad un altro.

L’effetto yo-yo può essere legato alla dipendenza da cibo?

  • L’andar su e giù di peso, e poi alla fine sempre un po’ più su, è il classico decorso non solo della dipendenza, ma anche di molte persone che non la hanno e si impegnano in diete per vario scopo. Lo yo yo può essere rapido o lento, anche in rapporto alle tecniche usate per dimagrire: in generale, rapido dimagrimento e rapida ripresa di peso sono speculari. Il risultato, però, anche nei dimagrimenti lenti, è la ripresa del peso: più tempo passa, più peso si recupera.

Come ricostruire un rapporto sano con il cibo? Quali sono le terapie consigliate?

  • Si può tentare di modificare sia la preoccupazione per il cibo, sia la parte legata alle abbuffate e alla voracità. Non esiste un farmaco “per l’appetito” che sia gestibile come regolatore “riduttore” in maniera sicura e stabile. I farmaci per calare di peso riducendo l’appetito in maniera continuativa si sono rivelati psichicamente poco sicuri. Alcuni possono indurre un calo di peso, ma questo avviene non in tutte le persone, spesso più nelle prime fasi di trattamento, e in soggetti che lo assumono per altri motivi, e non per dimagrire. Curare la bulimia non significa necessariamente dimagrire. Nel binge-eating disorder può esservi una riduzione del peso, ma l’alimentazione è eccessiva anche fuori dalle abbuffate. L’effetto è molto relativo.

È possibile prevenire la dipendenza da cibo?

  • Nella società di oggi significherebbe rendere il cibo costoso o poco gradevole, e nessuna di queste due linee è al momento pensabile. Paradossalmente, si è giunti a contesti in cui è più facile ingrassare che non morire di fame, contrapposti ad altri casi in cui continua ad avvenire il contrario. Un senza tetto di New York riesce con pochi dollari al giorno elemosinati a introdurre un surplus di calorie, laddove un contadino africano che lavori tutto il giorno può invece non riuscire a ottenere un nutrimento sufficiente. L’organismo umano, che da un lato non sa come sopravvivere senza nutrimento, non sa neanche come evitare di divenire obeso quando questo è libero e abbondante. Non lo sa sul piano metabolico, perché è predisposto ad accumulare, ma non lo sa soprattutto sul piano psichico, perché non ha una funzione di anti-appetito, se non la sazietà, che è fatta per durare il minimo possibile in presenza di cibo, e la nausea, che è un sintomo di malattia.